Che cos’è e come si ottiene il plasma iperimmune?
Prima di entrare nello specifico per parlare di Coronavirus, il dottor Francia ricorda cos’è e come si ottiene il plasma: “È la frazione liquida del sangue. Con una centrifuga, la parte corpuscolata, essenzialmente costituita da globuli bianchi, globuli rossi e piastrine, è separata dalla parte liquida che ha al proprio interno sali minerali, ormoni e proteine come albumine e anticorpi. Si tratta degli anticorpi che la persona ha prodotto nel corso della vita, perché ha contratto delle malattie oppure perché si è sottoposta a vaccinazione”.
Il plasma iperimmune è invece prelevato da un soggetto che ha di recente contratto una malattia, per esempio il Coronavirus, nel nostro caso, e che ha quindi avuto un elevato sviluppo di anticorpi. Si deduce che questo plasma ne sarà ricco. Tornando alla questione generale, l’utilizzo del plasma è una prassi comune: “è la cosiddetta sieroprofilassi e si applica soprattutto per la cura delle malattie nelle quali il tempo che intercorre tra il contagio e la comparsa di sintomi gravi è breve – spiega Francia. – Il tetano ne è un esempio, perché chi lo contrae rischia di morire in 48-72 ore, durante le quali l’organismo non può aver prodotto gli anticorpi necessari a contrastare la malattia. In questo caso vengono quindi somministrati degli anticorpi (contenuti nel plasma), e così viene fatto con la rabbia. È una terapia salvavita, a volte viene anche assunta a scopo preventivo, come nell’epatite A, ma in genere si somministra quando c’è il sospetto che la persona sia malata”.
Il plasma iperimmune nella terapia del Coronavirus
Sul Coronavirus, afferma l’epidemiologo, “abbiamo imparato alcune cose che lo discostano da altre malattie infettive: l’80-90% delle persone produce una quantità bassa di anticorpi. Per ottenere un plasma efficace, invece, abbiamo bisogno di un 10% di persone che ne produce molti. Questa popolazione può donare il proprio siero con la ragionevole speranza che esso aiuti altre persone a guarire”.
L’intervistato continua sostenendo che, purtroppo, bisogna ragionare anche sul costo della terapia. “Premesso che per salvare una vita non si debba badare a questi aspetti, dobbiamo tenere conto di tutte le spese che il sistema sanitario deve sostenere per raccogliere il plasma iperimmune. Ci sono state delle polemiche nelle settimane passate, proprio su questo punto: è passata l’informazione che si tratti di una terapia estremamente economica, ma non è così. Dato che non tutti quelli che si sono ammalati hanno sviluppato abbastanza anticorpi, i costi a livello organizzativo sono elevati, perché bisogna trovare chi può donare il plasma e convocarlo per il prelievo”.
Plasma iperimmune in pazienti con Coronavirus: lo studio del Policlinico San Matteo di Pavia
Il dottor Francia afferma che già la Cina aveva studiato la possibilità di curare i pazienti con il plasma iperimmune, ma i risultati non erano stati soddisfacenti. “A mio parere la motivazione può essere legata al fatto che potrebbero avere utilizzato il plasma di tutti i guariti, senza cercare quel 10% che aveva molti più anticorpi degli altri. Lo studio del Policlinico San Matteo di Pavia ha dimostrato che la terapia è efficace. Ha coinvolto 46 pazienti sopra i 18 anni, tutti sintomatici ma non ancora nello stadio più grave della malattia. Il virus, a quel punto, ha provocato delle polmoniti gravi causando una situazione di ipossia, ma il paziente non è ancora stato intubato.
La mortalità in questi casi è di circa il 15%: nello studio di Pavia è scesa al 6% con la somministrazione del plasma iperimmune. Su 46 pazienti si sarebbero attesi 7 morti, mentre ce ne sono stati 3. È quindi una terapia utile, ma sicuramente non risolutiva in senso assoluto. Bisogna informare le persone in maniera corretta: quattro vite sono importantissime, ma è un passo in avanti, non una cura miracolosa come è spesso stato detto in rete. Dobbiamo tener presente che il virus si comporta come una tanica di benzina: una volta che il fuoco si propaga è l’incendio a fare danni, la tanica è soltanto l’agente. Il virus scatena una tempesta infiammatoria nell’organismo, nella parte finale della malattia, quella che richiede il ricovero in rianimazione e l’intubazione: in quel momento il plasma non sarà più efficace, perché inibirà la malattia, ma non potrà intervenire sullo stato generale in cui si trova il paziente. Questa terapia può essere inoltre somministrata anche a chi ha un sistema immunitario debilitato, a patto che la persona non si trovi già in condizioni gravissime”.
Le prospettive dell’utilizzo di plasma iperimmune
I risultati dello studio di Pavia e delle altre sperimentazioni sono quindi incoraggianti, tuttavia Francia sottolinea che “il momento ideale per la terapia al plasma non dovrebbe essere quello in cui è già subentrata la polmonite, ma quello immediatamente successivo alla diagnosi, quando sono comparsi solo pochi sintomi o il tampone è risultato positivo. Purtroppo non è possibile farlo, perché non c’è abbastanza plasma per garantire la terapia a tutti i pazienti in questa condizione: sono convinto, però, che quello sia il momento giusto, in cui può impedire lo sviluppo della malattia. Per garantire questo tipo di cura, bisognerebbe passare dall’utilizzo di anticorpi prelevati da pazienti guariti a quelli prodotti in laboratorio, i cosiddetti anticorpi monoclonali. L’efficacia di questa terapia potrebbe quindi essere fortemente implementata, mentre oggi è un intervento che ci aiuta a contenere una situazione clinica prima che si aggravi”.
Chi guarisce grazie alla terapia con il plasma sviluppa anticorpi contro il coronavirus?
A questa domanda, il dottor Francia risponde che potrebbe non accadere. “Se la somministrazione del plasma iperimmune riesce a far abortire la malattia, che quindi non progredisce, il paziente potrebbe non sviluppare degli anticorpi, perché è guarito solo grazie a quelli contenuti nel plasma. Se invece la malattia ha un proprio decorso, seppure con sintomi contenuti, gli anticorpi si sviluppano. Si tratta comunque di un’interferenza, legata però al singolo caso. È una strada promettente, che avrà delle grandi potenzialità nel momento in cui si riuscirà a produrre anticorpi in laboratorio. Inoltre non sappiamo ancora per quanto tempo gli anticorpi restano nel sangue. Per averne una quantità elevata, bisogna prelevare il plasma a ridosso della guarigione, mentre dopo 6 mesi il livello sarà sicuramente più basso”.
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