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Caldo e Covid: esiste una relazione? L’estate favorirà l’arresto del virus?

Nelle ultime settimane è calato il numero di contagi da Coronavirus sia in Italia che in altri Paesi, con un progressivo ritorno alla socialità e agli spostamenti, che ben presto saranno consentiti anche fuori dal territorio nazionale, sebbene per entrare in molti paesi bisognerà osservare un periodo di quarantena. L’arrivo del caldo è considerato un fattore determinante per la diminuzione dei contagi e l’impatto della bella stagione è stato preso in esame da medici e scienziati per comprenderne l’importanza: uno studio pubblicato a maggio su Science, però, ha evidenziato che l’estate non sarà sufficiente a fermare la pandemia di Coronavirus. Abbiamo chiesto alcune considerazioni in merito al dottor Fausto Francia, epidemiologo, specialista in igiene e medicina preventiva, Direttore sanitario del Centro Diagnostico Chirurgico Dyadea e Membro del Comitato Scientifico di UniSalute. 

Caldo e Coronavirus: lo studio dell’Università di Princeton

 

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Alcuni ricercatori dell’Università statunitense di Princeton hanno raccolto dati sull’importanza del clima nella pandemia di Coronavirus, partendo da una considerazione preliminare, ovvero che le stagioni possano modulare la trasmissione del Covid. Le loro ricerche sono un tentativo di capire se il caldo, o comunque un cambiamento climatico, possa davvero influenzare in modo decisivo l’andamento della pandemia: per farlo, hanno utilizzato un modello epidemico clima-dipendente che simulasse diversi scenari, basati su quanto è oggi noto della biologia di questo virus. 

Come si legge nell’articolo, diversi studi hanno scoperto che temperatura, umidità specifica e relativa hanno un ruolo nella trasmissione del SARS-CoV-2: il freddo secco sembrerebbe aumentare la possibilità di contagio, infatti in Europa la diffusione del virus è avvenuta proprio nel pieno della stagione invernale. I ricercatori, però, sottolineano che ci sono ancora pochi dati sulla pandemia e non è possibile trarre delle conclusioni certe, ma soprattutto, bisogna considerare che le condizioni climatiche hanno un impatto relativo se paragonato alla suscettibilità della popolazione, che anche oggi è immune al coronavirus soltanto in minima percentuale. 

Le variazioni di temperatura e umidità dovute alla bella stagione, secondo i risultati dello studio, sono importanti nelle infezioni endemiche, ma durante uno stato pandemico rappresentano soltanto un modesto fattore di influenza. Sembra quindi che le misure di carattere non farmaceutico (un vaccino non è ancora disponibile, come sappiamo), come il rispetto del distanziamento fisico, ma anche il continuo monitoraggio, restino uno strumento indispensabile per controllare la diffusione del Coronavirus. 

Il Covid in Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica

 

coronavirus australia nuova zelanda

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Sebbene i ricercatori di Princeton abbiano evidenziato che l’estate non potrà fermare la pandemia di Covid, il dottor Francia ha ricordato che con l’arrivo del caldo e il ritorno alla vita all’aria aperta il rischio di diffusione del Coronavirus diminuisce, come per tutte le malattie a trasmissione respiratoria. È quindi normale che ci sia stato un calo sensibile nella curva dei contagi, nel nostro Paese e in molti altri, e la situazione resterà presumibilmente simile anche nei prossimi mesi. “In tanti hanno parlato del Brasile come esempio di un paese in cui il clima non ha fatto la differenza – aggiunge – ma bisogna considerare le condizioni del sistema sanitario, per prima cosa, e il fatto che il Governo non abbia adottato delle misure efficaci, come è accaduto nei nostri Paesi. Anche le condizioni abitative sono rilevanti. 

Possiamo invece fare un confronto più sensato con Nuova Zelanda e Australia, che hanno una struttura sanitaria robusta: hanno vissuto il coronavirus quando c’era la stagione estiva e ne sono usciti in maniera egregia, con pochissimi casi. La popolazione della Nuova Zelanda e dell’Australia sono molto lontane per numero da quella italiana (circa 5 milioni e 25 milioni di abitanti, rispettivamente, ndr), la situazione del Sudafrica è invece paragonabile alla nostra (55 milioni di abitanti, ndr): anche lì i casi sono stati molto meno dei nostri”. 

I numeri del Coronavirus in Sudafrica, Australia e Nuova Zelanda confortano una lettura che vede nell’estate un alleato, secondo l’epidemiologo. “Sono paesi molto più giovani rispetto all’Italia, ma i casi di Covid sono così differenti in numerosità che questo dato non si può spiegare soltanto con la diversa composizione della popolazione, devono esserci anche altri fattori”.

Cosa cambierà con l’arrivo dell’estate

 

coronavirus estate

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Tra febbraio e marzo, quando si è verificato un aumento esponenziale del numero di casi in Italia, ci trovavamo nel pieno della stagione fredda. “La differenza l’ha fatta il periodo – specifica Francia –  poiché il nostro sistema respiratorio era più fragile. Il caldo e la vita all’aperto ostacolano molto la trasmissione, e c’è una differenza tra caldo umido e secco: per quanto le ultime stagioni siano state umide anche da noi, non è una situazione paragonabile a quella di paesi come il Brasile. L’irraggiamento solare, inoltre, contribuisce a distruggere il virus: le superfici molto calde, come un volante di un’auto parcheggiata al sole, che non riusciamo a toccare con le mani a causa dell’elevata temperatura, sono un grosso deterrente anche per il virus, che non può sopravvivere. Tutto il sistema estivo favorisce la diminuzione dei contagi e del diffondersi del Coronavirus, per questo sono moderatamente ottimista, a patto che le persone si comportino bene: se si va a ballare senza precauzioni e senza mantenere la distanza, per esempio, potrebbe ovviamente verificarsi una situazione diversa”. 

L’intervistato sottolinea però che siamo ancora esposti a una serie di rischi. “In Cina, come sappiamo, il virus continua a circolare e sarà così anche negli altri Paesi. Ci sarà un ritorno, presumibilmente in tardo autunno, tra fine novembre e dicembre, per questo motivo sarà importante vaccinarsi contro l’influenza, altrimenti ci potrebbe essere una grossa ondata di falsi positivi che hanno contratto l’influenza e non il coronavirus. C’è poi la questione della differenza tra asintomatici e della loro capacità di trasmettere l’infezione”. Risultano asintomatici, infatti, i soggetti che sono entrati in contatto con il virus ma non svilupperanno la malattia, sebbene il virus resti comunque nel loro corpo per un certo periodo: questi, appunto, non presenteranno mai sintomi, ma sottoposti a un eventuale tampone risulteranno positivi. C’è poi un altro gruppo di asintomatici, ovvero quelli che sviluppano il virus, ma sono asintomatici nelle 48 ore (o poco più) precedenti: si tratta di soggetti in cui il virus ha molta più carica virale, quindi in teoria, nella maggior parte dei casi, hanno una maggiore capacità di trasmissione. “Bisognerà fare in modo che il servizio nazionale non sia impegnato come nei mesi di marzo e aprile, ma la situazione non dovrebbe tornare come prima: abbiamo tamponi e test sierologici, l’elasticità dei posti in rianimazione, il supporto dei servizi territoriali. A mio parere saremo molto più pronti, ma fare previsioni accurate non è possibile”. 

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