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Morbo di Alzheimer: è possibile prevenirlo? A che punto è la ricerca?

 

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, in tutto il mondo la demenza colpisce circa 50 milioni di persone. In Italia, a soffrirne è più di 1 milione e mezzo di persone, stando alle stime di alcuni ricercatori, e il numero raddoppierà entro il 2050. Tra di essi, una percentuale compresa tra il 60 e l’80% contrae il morbo di Alzheimer, che viene perciò definito come la più comune forma di demenza senile, con almeno 600 mila casi nel nostro Paese (dati Airalzh, Associazione Italiana Ricerca Alzheimer Onlus).

Genericamente si definisce questa malattia come una perdita di memoria e di capacità intellettuali che ha un forte impatto nella vita quotidiana, tuttavia si tratta di una patologia neurologica molto più complessa. Vediamo, dunque quali sono i sintomi, che strategie di prevenzione vengono impiegate e quali novità provengono dalla ricerca sull’Alzheimer.

Che cos’è il morbo di Alzheimer

Alzheimer

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Il morbo di Alzheimer è una malattia neurologica degenerativa che colpisce il sistema nervoso centrale, nella maggior parte dei casi, dopo i 65 anni. È bene sottolineare che non si tratta di una normale caratteristica dell’invecchiamento, ma di una vera e propria patologia, rispetto cui l’età è uno dei fattori di rischio, probabilmente fondamentale, sebbene non sia il solo.

Il primo a parlarne fu il neurologo tedesco Alois Alzheimer, nel 1906, che identificò sia la sintomatologia che alcuni segni sul tessuto cerebrale di una sua paziente, dopo l’autopsia: si trattava di quelle che vennero poi definite placche amiloidi, formate da proteine, e dei viluppi neuro-fibrillari. Tuttavia, anche oggi i processi che portano alla loro formazione sono sconosciuti e vengono quindi considerati un effetto della malattia, non la sua causa.

L’importanza della dopamina nella genesi della malattia

Nell’aprile 2017, uno studio della Fondazione IRCCS Santa Lucia, del Cnr di Roma e dell’Università Campus Bio-Medico, pubblicato sulla rivista Nature Communications, ha svelato un’importante scoperta scientifica in questo campo. I ricercatori coinvolti, infatti, hanno svolto un’accurata analisi morfologica del cervello intuendo che la radice della malattia non va cercata nell’ippocampo, responsabile della memoria, ma nella parte di cervello che produce la dopamina. Di fatto, se questa sezione muore, i neurotrasmettitori non funzionano più. La perdita della memoria, quindi, non dipenderebbe dalla morte delle cellule dell’ippocampo, ma dalla degenerazione di quelle che producono il preziosissimo neurotrasmettitore.

Sintomi e fattori di rischio

Il morbo di Alzheimer provoca un progressivo declino delle funzioni cognitive. È spesso definito come la “malattia delle quattro A”, poiché i sintomi principali sono:

  • amnesia
  • afasia
  • agnosia
  • aprassia.

Si tratta, rispettivamente, di una perdita della memoria, della capacità di articolare frasi di senso compiuto, di orientarsi e riconoscere persone, luoghi e oggetti, di compiere gesti quotidiani.

Sintomi alzheimer

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Il decorso è caratteristico per ogni paziente e la durata stimata della malattia è tra gli otto e i vent’anni, ma l’aspettativa media di vita dopo la diagnosi va dai 3 ai 9 anni; la persona colpita dall’Alzheimer, in maniera progressiva e, purtroppo, inarrestabile, passa da una prima fase in cui mostra prevalentemente disturbi della memoria a breve termine e confusione lieve, a una seconda in cui può manifestare cambiamenti dell’umore, confusione profonda e parziale perdita di autoconsapevolezza, fino a una terza fase in cui perde totalmente l’autonomia e ha bisogno di qualcuno che si prenda cura di lei, perché non è più in grado neppure di comunicare.

Dal momento che l’origine della malattia non è chiara, anche l’individuazione dei fattori di rischio non è semplice. Sicuramente, come abbiamo anticipato, l’età ha un ruolo: la maggior parte dei casi, infatti, emerge dopo i 60-65 anni, ma ci sono anche pazienti in cui viene registrata un’insorgenza anticipata (tra i 30 e i 60 anni). Alcuni studi suggeriscono che vi sia anche una componente genetica e di familiarità, oppure che la malattia sia in qualche modo legata a traumi, depressione o ipertensione.

Diagnosticare l’Alzheimer

Nella diagnosi di Alzheimer vengono presi in considerazione molti fattori, a partire dalla storia clinica del paziente e dei suoi familiari e una valutazione delle condizioni mentali; si eseguono poi esami neurologici, di laboratorio e strumentali, come risonanza magnetica, tac, elettroencefalogramma. È inoltre necessaria una valutazione neuropsicologica e psichiatrica, ma la certezza che si tratti di questa malattia può essere data soltanto dall’autopsia, dopo la morte. I test diagnostici a cui si sottopone il paziente servono anche a escludere altre cause e patologie. Attualmente, infatti, la diagnosi può essere probabile o possibile, a seconda che la demenza possa dipendere dall’Alzheimer, o che si ipotizzi la compresenza di un’altra malattia: si può arrivare, quindi, a un alto grado di certezza, tuttavia non esistono ancora degli esami specifici che lo confermino quando il paziente è in vita.

Esiste una cura per l’Alzheimer?

Cura Alzheimer

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La complessità della malattia e i molti nodi irrisolti riguardo alla sua origine fanno sì che, ad oggi, non esista una vera e propria cura per l’Alzheimer, mentre si tende ad agire sui sintomi, provando così ad arginarne il decorso. Il fatto che si tratti di una patologia diffusa e invalidante, però, rende cruciale la necessità di investire cifre significative, ma sia i fondi messi a disposizione per la ricerca che gli studi clinici effettuati in tutto il mondo sulla demenza sono numericamente molto inferiori rispetto ad altri ambiti.

Gli scienziati sono concentrati, in particolare, su tre fronti:

  • individuare un modo per fermare o rallentare il decorso della malattia;
  • identificare con precisione i fattori di rischio;
  • migliorare la capacità di diagnosticare la patologia nelle primissime fasi.

Ricerca sull’Alzheimer: diagnosi e prevenzione della malattia

La prevenzione della malattia è al centro di numerose ricerche. Mantenere uno stile di vita sano, accompagnando alla dieta equilibrata l’attività fisica e le interazioni sociali, sembra essere un fattore chiave per supportare il nostro cervello, conservandone le cellule, e scongiurando il più possibile l’insorgenza di patologie neurodegenerative. Prima di passare in rassegna alcuni studi sull’argomento, vediamo un’interessante prospettiva della ricerca per la diagnosi della malattia.

Studio dei solchi cerebrali: un progetto di ricerca per la diagnosi

Il dottor Giorgio Giulio Fumagalli, medico specialista in Neurologia presso l’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, sta portando avanti da alcuni anni un progetto di ricerca che ha come obiettivo il miglioramento della diagnosi differenziale delle demenze, attraverso lo studio dei solchi cerebrali a seguito di una risonanza magnetica. Analizzando a livello visivo e grazie a un software la parte del cervello che è andata incontro ad atrofia si potrebbe infatti più facilmente capire quando il paziente è affetto da Alzheimer.

L’importanza della dieta

Già nel 2009, uno dei numerosi studi condotti sul tema dalla Columbia University di New York, pubblicato sulla rivista Neurology, ha analizzato le abitudini alimentari di 1.219 persone con più di 65 anni di età, con l’obiettivo di misurare il livello della proteina beta-amiloide (che, in un anziano sano, dovrebbe essere basso). I ricercatori hanno osservato che un alto apporto di omega-3, assunto tramite insalata, pesce, frutta, carne di pollo, e altri smart food, mantiene bassa la quantità della proteina presente nell’organismo, confermando di fatto che una dieta ricca di questi alimenti, come quella mediterranea, può prevenire i primi sintomi della demenza che possono sfociare nell’Alzheimer.

Anziani mangiamo cibo sano

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Nel 2015, una ricerca pubblicata su Alzheimer’s & Dementia: The Journal of the Alzheimer’s Association ha ulteriormente evidenziato che il cibo è uno dei fattori di massima importanza nella prevenzione dell’Alzheimer, attraverso l’analisi delle diete di oltre 2.000 adulti. Alimenti come mirtilli, legumi e grani integrali aiutano l’organismo a difendersi anche da questa patologia, e fondamentale è l’olio d’oliva. A questo proposito, una ricerca recente della dott.ssa Manuela Leri della rete Airalzh, realizzata presso il Dipartimento di Scienze Biomediche Sperimentali e Cliniche “Mario Serio” dell’Università degli Studi di Firenze, si è concentrata sul ruolo dei polifenoli contenuti proprio nell’olio extravergine d’oliva. Grazie al loro effetto protettivo nei confronti dei neuroni, potrebbero interferire con le alterazioni tissutali tipiche dell’Alzheimer, evitando il proliferare delle placche amiloidi. Si tratta di risultati che dovranno essere approfonditi con ulteriori studi, ma che hanno un grande potenziale.

Correre e fare movimento

I ricercatori della University of Pittsburgh in Pennsylvania hanno, invece, studiato il rapporto tra l’Alzheimer e l’attività fisica. In particolare, è stato dimostrato che correre fa bene al cervello: riduce i danni cerebrali, consente di apprendere più velocemente e stimola la produzione di nuove cellule dell’ippocampo.

È stato osservato che i soggetti che corrono circa 8/10 chilometri a settimana hanno un volume cerebrale maggiore, a parità di altri fattori, rispetto a chi conduce una vita sedentaria. Non è necessario trasformarsi in podisti, ma seguire alcuni accorgimenti quotidiani, come fare sempre le scale a piedi o preferire la camminata all’auto per fare tratti brevi di strada.

Sport anziani

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Compagnia e assistenza

Infine, la ricerca sull’Alzheimer sottolinea come sia importante mantenere forti legami personali, affettivi e sociali per prevenire l’insorgenza della malattia. Ciò può essere determinato dal fatto che stimolare la mente mantiene più vive e attive le cellule cerebrali. Pertanto è davvero fondamentale proteggere i nostri cari quando si avvicina la Terza età e, soprattutto, all’insorgere della malattia, facendo in modo che non si isolino e rimangano attivi.

L’assistenza alle persone colpite da Alzheimer si svolge prevalentemente in casa. In Italia, secondo i dati raccolti dal Censis, nella metà dei casi sono i figli ad occuparsi del malato, mentre il 38% delle famiglie ricorre a una badante e crescono le situazioni in cui è il coniuge a prendersi cura in casa della situazione (il 37% nel 2015, soprattutto donne), spesso a causa dei costi elevati dell’assistenza.

Esistono alcune forme di aiuto per i familiari di persone affette da Alzheimer, tra cui, ad esempio, la possibilità di ottenere permessi lavorativi retribuiti, aiuti che purtroppo si rivelano spesso insufficienti a risolvere situazioni molto difficili.

 

Articolo scritto con il contributo di Angela Caporale

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    1 commento

  1. Buongiorno, da tempo ormai mi tengo costantemente informato circa le novità della ricerca sul’Alzheimer, che nella pratica si ferma alla ricerca di denaro o di spazi su riviste mediche per annunci promettenti ma che rinviano di anni la disponibilità di un qualunque presidio.
    Note Società farmaceutiche annunciano inoltre di aver rinunciato a proseguire il lavoro.
    Non c’è bisogno di essere medici per capire quale è la situazione.
    Evidentemente le cose stanno bene così e non serve trovare rimedi, oppure il rimedio esiste è stato trovato, si tratta di cose semplici e di comune reperimento ed è impossibile riuscire ad ottenere brevetti e fare cassa.
    Le due cose possono benissimo coesistere.
    Per cui avviene che chi ha la malattia se la dovrà tenere perchè si ritiene impossibile risolverla, a meno che non venga fuori qualcuno che ignora sia impossibile e trova il rimedio.
    Cordiali saluti