Lo screening come strumento diagnostico
Spesso ripetuto a intervalli regolari e quasi sempre seguito da verifica clinica in caso di primo esito positivo, lo screening è un insieme di esami diagnostici e di laboratorio finalizzati a individuare malattie curabili o che possano almeno beneficiare di un eventuale trattamento terapeutico precoce.
Dalla fibrosi cistica alla fenilchetonuria, sono molte le patologie anche rare e/o genetiche che è oggi possibile diagnosticare precocemente grazie agli screening dedicati. Non solo: secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio Nazionale Screening, in questi ultimi anni l’Italia è giunta a risultati importanti grazie all’impegno dei Sistemi Sanitari Regionali nell’attuare le linee guida nazionali in materia di screening, anche rispetto a forme tumorali a carico, per esempio, del colon-retto e della cervice uterina.
Se l’importanza dello screening è da ricercarsi nel rischio di diagnosticare troppo tardi patologie altrimenti curabili, la sua efficacia in quanto strumento diagnostico è legata invece alla selezione dei destinatari del programma di screening, cioè:
- i gruppi di persone ad alto rischio di sviluppare una determinata patologia;
- gli individui appartenenti alla fascia d’età in cui quella patologia ha maggiore probabilità di manifestarsi.
Alcuni screening, come quello neonatale, sono obbligatori per legge dal 1992: vediamo dunque nel dettaglio in cosa consiste e come consente di diagnosticare la fibrosi cistica.
Diagnosticare la fibrosi cistica: lo screening neonatale
Eseguito durante i primi tre giorni di vita attraverso il prelievo di poche gocce di sangue dal piedino del neonato, lo screening neonatale è un esame indolore e non invasivo, di cruciale importanza soprattutto per via delle malattie che consente di individuare: patologie endocrine e metaboliche ereditarie, rare se considerate singolarmente, ma di grave impatto se valutate nel loro complesso.
Si stima infatti che l’incidenza totale delle malattie oggetto di screening sia di circa 1 caso ogni 2.000 neonati; fra tutte, la fibrosi cistica è certamente una delle più pericolose, diffusa nei termini di 200 nuovi casi rilevati all’anno. Si tratta, come abbiamo già visto nel dettaglio, di una malattia genetica che determina un’eccessiva densità del muco prodotto dall’organismo, con conseguenti danni infiammatori a carico di organi vitali come i polmoni e il pancreas.
In cosa consiste il test di screening
Al momento del prelievo del materiale ematico dal tallone del bambino, il medico adopera una lancetta pungidito sterile e deposita le gocce di sangue su un cartoncino assorbente in grado di essiccarlo e preservarne le caratteristiche: il campione sarà infatti inviato al più vicino Centro di Screening Neonatale, che ne verificherà l’eventuale presenza patologica.
Da questo momento in poi, lo screening si articolerà in un processo di sperimentazione clinica che fa della ricerca la sua arma principale. Ad essere verificate saranno soprattutto la correttezza del corredo genetico e la piena funzionalità ormonale, tramite l’analisi dei valori ematici e specifici test epidemiologici, come disposto dalla legge che ha reso obbligatori in Italia gli accertamenti diagnostici neonatali.
Lo screening neonatale in Italia: la legge 167/2016
Diffusosi durante gli anni ‘70 in seguito alle scoperte del microbiologo statunitense Robert Guthrie, l’accertamento clinico sul neonato era inizialmente incentrato sulla fenilchetonuria. Solo nel decennio successivo furono introdotti lo screening per l’ipotiroidismo congenito e quello per la fibrosi cistica: l’obbligatorietà per lo screening di queste tre patologie è stato in seguito sancito dalla Legge Nazionale 104 del 1992.
Ma lo screening neonatale per come lo conosciamo è disciplinato dalla legge 167/2016, che le ha esteso il test diagnostico a oltre 40 malattie metaboliche ereditarie; rimane invariato l’aspetto non invasivo del prelievo, ma le tecniche cliniche vengono di fatto implementate per favorire sia la ricerca su queste patologie che l’applicazione terapeutica in caso di esame positivo.
Diagnosi di fibrosi cistica: come intervenire
E se il test di screening risultasse positivo? In questo caso, la prassi richiede che il Centro di Screening effettui un secondo controllo; se la diagnosi di fibrosi cistica dovesse essere confermata, saranno gli stessi medici del Centro a comunicarlo ai genitori del bambino e al pediatra di famiglia, inizializzando così il percorso assistenziale riservato al neonato.
Tale percorso coinvolgerà diverse figure professionali e specialisti esperti del settore; è infatti cruciale intervenire quando il neonato non presenta ancora sintomi e non ha subito danni cerebrali né organici, al fine di iniziare subito il trattamento più efficace contro la fibrosi cistica.
Anche se non è ancora disponibile una cura risolutiva, è infatti possibile migliorare lo stato di salute del paziente e la sua qualità di vita limitando i danni causati dalla decorso della patologia, al fine di evitare disturbi neurologici permanenti e ritardi nella crescita.
Tra gli elementi terapeutici più diffusi nel trattamento della fibrosi cistica, troviamo:
- percorsi di fisioterapia respiratoria, volti a limitare l’incidenza della patologia sull’attività polmonare;
- antibioticoterapia, spesso somministrata tramite aerosol, tesa a contrastare occlusioni e infezioni delle vie aeree;
- integrazione alimentare di enzimi pancreatici, per far fronte all’insorgenza di insufficienza pancreatica, e l’assunzione di integratori salini.
In particolare, le modifiche da apportare alla dieta del bambino devono essere effettuate sotto stretto controllo pediatrico, anche in considerazione dei cambiamenti repentini a cui il neonato va incontro nei primi mesi di vita.
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FONTI:
- fibrosicistica.it
- salute.regione.emilia-romagna.it
- fibrosicisticaricerca.it
- aismme.org
- cometaemiliaromagna.it
- robertguthriepku.org
- salute.gov.it
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