Coronavirus

Coronavirus: la risposta alle domande più frequenti

Articolo aggiornato in data 5 febbraio 2021

 

Come sappiamo, tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, è emerso un nuovo rischio per la salute dell’uomo, che ha fatto scattare l’allarme a livello internazionale. Stiamo parlando del nuovo Coronavirus (SARS-CoV-2), un nuovo ceppo di coronavirus che non è stato mai identificato nell’uomo prima del 31 dicembre dello scorso anno, quando nella città di Wuhan, nella Cina centrale, le autorità sanitarie hanno notificato un focolaio di casi di polmonite ad eziologia ignota. In poche settimane, il virus si è diffuso velocemente in tutto il mondo, al punto che, l’11 marzo scorso, il focolaio internazionale di infezione da SARS-CoV-2 è stato dichiarato “pandemia” dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms).

Il nostro blog fin dall’inizio di febbraio scorso ha deciso di occuparsi della vicenda attraverso vari articoli di approfondimento, sviluppati anche con il supporto del dottor Fausto Francia, epidemiologo, specialista in igiene e medicina preventiva, Direttore sanitario del Centro Diagnostico Chirurgico Dyadea e Membro del Comitato Scientifico di UniSalute. Abbiamo dunque creato una rubrica ad hoc per raccogliere gli articoli dedicati all’argomento, cercando di rispondere alle domande dei lettori in questo periodo difficile di paure e incertezze.

Nonostante la situazione sia in continuo e rapido sviluppo, in quest’articolo cerchiamo di capire quali sono i rischi del coronavirus per l’uomo, i sintomi, la diagnosi e, soprattutto, come fare per proteggersi, rispondendo sinteticamente ad alcune domande che molti di noi si pongono.

Cosa sono i coronavirus

Scoperti a metà degli anni Sessanta, i coronavirus (CoV) sono una serie di virus respiratori appartenenti alla famiglia delle Coronaviridae, che possono causare diverse malattie di gravità crescente: dal lieve e comune raffreddore si può arrivare a patologie più pericolose come la MERS (Middle East respiratory syndrome, ossia sindrome respiratoria mediorientale) o la SARS (Severe acute respiratory syndrome, ossia sindrome respiratoria acuta grave). Il loro nome deriva dalla particolarità della loro forma al microscopio: la loro superficie si presenta cosparsa di caratteristiche punte che ricordano, appunto, una corona.

Questa tipologia di virus è piuttosto comune negli animali, soprattutto mammiferi e uccelli. In alcuni casi, tuttavia, è possibile che alcuni di essi si evolvano e, di conseguenza, infettino l’uomo, come è avvenuto nel 2002, sempre in Cina, quando il virus SARS-CoV è stato trasmesso dagli zibetti agli uomini, oppure dieci anni dopo, in Arabia Saudita, quello MERS-CoV dai dromedari agli uomini.

Ad oggi, i coronavirus umani conosciuti sono sette, compreso quello identificato in Cina alla fine dello scorso anno che, all’inizio, era stato chiamato provvisoriamente 2019-nCoV. Successivamente, però, l’International Commitee on Taxonomy of Viruses (ICTV) ha classificato il nuovo coronavirus denominandolo SARS-CoV-2 e l’11 febbraio 2020 l’Oms ha annunciato che la malattia respiratoria che deriva dall’infezione si chiama Covid-19, dove “CO” sta per corona, “VI” per virus, “D” per disease e “19” indica l’anno in cui si è manifestata.

Come è iniziata l’infezione?

Come abbiamo detto, i primi casi sono stati identificati nella città di Wuhan a dicembre dello scorso anno, e le autorità cinesi avevano collegato il primo contagio al Wuhan’s South China Seafood City market, il mercato del pesce cittadino. Il 9 gennaio 2020, l’Oms ha riportato pubblicamente che le autorità sanitarie cinesi avrebbero identificato un nuovo ceppo di coronavirus, mai rilevato prima nell’uomo, confermando anche la sua trasmissione inter-umana. Sull’origine naturale non ci sono ancora risposte certe: non è ancora stato ritrovato il “genitore” diretto del SARS-CoV-2 nella fauna selvatica e l’Oms sta predisponendo un team per condurre queste indagini epidemiologiche in Cina per fare luce su questo aspetto.

Il 30 gennaio, dopo il secondo Comitato di sicurezza, il focolaio internazionale da nuovo coronavirus SARS-CoV-2 è stato dichiarato un’ “emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale” (Public Health Emergency of International Concern – PHEIC) dal Direttore Generale dell’Oms, come sancito nel Regolamento Sanitario Internazionale. Il 28 febbraio rischio, quindi, è passato da “alto” a “molto alto” a livello globale, non più soltanto in Cina.

Per monitorarne l’evoluzione e il numero di casi confermati in laboratorio, Stato per Stato, consigliamo di controllare il portale dell’Oms, che aggiorna quotidianamente i dati.

Da quanto è in circolazione il virus?

A fine febbraio 2020, un gruppo di ricercatori italiani del Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche dell’Ospedale Sacco di Milano e del Centro di Ricerca di Epidemiologia e Sorveglianza Molecolare delle Infezioni dell’Università Statale di Milano ha fatto uscire una ricerca – pubblicata sul Journal of Medical Virology, vol. 92, No. 6 a giugno 2020 – che consentirebbe di “retrodatare” il periodo in cui il coronavirus ha cominciato a circolare in Cina. Secondo lo studio, la circolazione può essere collocata già tra la seconda metà di ottobre e la prima metà di novembre 2019, e poi avrebbe registrato un’accelerazione nel mese di dicembre.

I ricercatori hanno analizzato 52 genomi completi del SARS-CoV-2 depositati nelle banche dati genetiche fino al 30 gennaio, valutando i parametri epidemiologici fondamentali, come il numero riproduttivo di base (R0) e il tempo di raddoppiamento delle infezioni. In sintesi, hanno scoperto che da un numero riproduttivo inferiore a 1, durante il mese di dicembre il virus è passato a 2.6, suggerendo quindi che l’aumento del parametro sia dovuto ai cambiamenti genomici che hanno permesso al virus di trasmettersi più efficacemente. In pratica, a dicembre si sarebbero innestate modalità più efficienti di trasmissione, come quella respiratoria e quindi uomo-uomo.

Questa ipotesi sembra anche confermata da uno studio dell’ISS sulle acque di scarico di Milano e Torino, evidenziando come fossero già presenti tracce del SARS-CoV-2 già a dicembre 2019.

Sintomi e diagnosi: come riconoscere la Covid-19?

Ormai la malattia da Covid-19 si è diffusa in tutto il mondo, e per questo è fondamentale tenere attentamente monitorato il proprio stato di salute. I sintomi da infezione da coronavirus SARS-CoV-2 sono poco specifici e variano a seconda della gravità della malattia. Nei casi non gravi non troppo diversi da quelli di un’influenza stagionale. Infatti, come ha riportato inizialmente anche il dottore Francia nell’approfondimento dedicato sugli effetti del virus, nei casi meno gravi tra i sintomi influenzali e quelli da Covid-19 “non ci sono delle vere e proprie differenze”. Riconoscerli, quindi, è alquanto complesso, ma secondo le autorità sanitarie, i sintomi più comuni da Covid-19 sono:

  • febbre
  • tosse secca
  • spossatezza.

Alcune persone possono manifestare anche sintomi meno comuni, come:

  • perdita di gusto e olfatto
  • congestione nasale
  • naso che cola
  • congiuntivite
  • gola infiammata
  • mal di testa
  • dolore muscolare o articolare
  • diversi tipi di eruzioni cutanee
  • nausea o vomito
  • diarrea
  • brividi o vertigini.

Questi sintomi sono generalmente lievi e si manifestano in maniera graduale. Inoltre, l’Oms sottolinea che molte persone infettate non manifestano alcun sintomo.

In alcuni casi, al contrario, possono svilupparsi anche sintomi più gravi, come:

  • difficoltà respiratoria o fiato corto
  • oppressione o dolore al petto
  • perdita della facoltà di parola o di movimento.

In aggiunta a questi, un’infezione grave da Covid-19 può portare, oltre all’insorgenza di difficoltà respiratorie, patologie come polmonite o bronchite, insufficienza renale o respiratoria, sepsis e shock settico, che potenzialmente portano alla morte.

Per chi volesse approfondire, sui sintomi del Covid-19 abbiamo dedicato un approfondimento.

Qual è il tempo di incubazione?

Secondo la maggior parte delle stime, il periodo di incubazione – ossia, il tempo che intercorre tra l’infezione e la manifestazione dei sintomi – del SARS-CoV-2 è in media di 5-6 giorni, anche se può variare da 1 a “14 giorni, che è anche la durata dell’isolamento a cui viene sottoposto un potenziale contagiato per vedere se sviluppa la malattia”, come riporta Francia.

Come si trasmette?

Come sappiamo, è stata ampiamente confermata la trasmissione da uomo a uomo, ma le modalità e la portata sono tuttora da chiarire.

Tuttavia, gli esperti hanno valutato il comportamento dei coronavirus umani già conosciuti e, da vari studi epidemiologici, il SARS-CoV-2 non si sta comportando diversamente. Infatti, questi si trasmettono dopo attraverso goccioline (droplets) relativamente grandi da contenere il virus che, dal naso e dalla bocca di un paziente infetto, si diffondono nell’aria quando tossisce o espira. Il dottor Francia spiega che è necessario distinguere tra:

  • contagio diretto: avviene essenzialmente per via aerea, attraverso appunto un colpo di tosse o uno starnuto (ma anche quando parla o canta, come sottolinea il Ministero della Salute) perché così i virus possono essere inalati da una persona molto vicina (contatto stretto).
  • contagio indiretto: avviene toccando prima un oggetto o una superficie contaminati dal virus e poi portandosi le mani (non pulite) sulla bocca, sul naso o sugli occhi.

Secondo attuali evidenze scientifiche, la modalità principale di trasmissione rimane la prima, ossia attraverso i droplet emessi, mentre sull’effettivo ruolo del contagio indiretto nella trasmissione del virus ci sono ancora studi in corso.

Inoltre, sulla base di vari studi, il virus si trasmette anche nella fase presintomatica dell’infezione, e alcune ricerche sembrano proprio suggerire che la massima infettività e contagiosità coincida proprio con quella fase, 2-3 giorni prima la comparsa dei sintomi.

Su come funziona la catena del contagio, ne abbiamo parlato in maniera più approfondita in questo articolo.

Cosa sappiamo della trasmissione aerea?

Dall’inizio della pandemia e soprattutto quando è esplosa la seconda ondata, è stata avanzata un’ulteriore ipotesi sulle modalità di trasmissioni del virus, e cioè quella area (airbone), su cui si è dibattuto molto. In particolare, ad animare il dibattito è stata la pubblicazione online il 18 settembre da parte dei CDC americani di una bozza che aggiornava le modalità di trasmissione del coronavirus, aggiungendo appunto quella tramite aerosol. Bozza che è poi stata ritirata perché pubblicata per “errore”, in quanto non ancora sottoposta a revisione, e adesso tornata nuovamente visibile sul sito dei CDC.

Secondo gli esperti quindi, “sulla base di evidenze scientifiche crescenti” (anche se non sufficienti a provarlo con assoluta certezza), il virus potrebbe trasmettersi anche attraverso goccioline più piccole dei droplets, ossia attraverso microparticelle della grandezza di circa 5 micron che vanno a comporre l’aerosol. A differenza dei droplets che si disperdono a breve distanza (1-2 metri) dal punto di emissione (per questo si considera “sicura” la distanza fisica tra due persone di almeno un metro), queste microparticelle, come scrivono i ricercatori, “possono rimanere sospese nell’aria per lunghe distanze e persistono per diverso tempo”.

Nonostante ciò, il documento afferma molto chiaramente che la modalità di trasmissione principale rimane quella di contagio diretto entro breve raggio, mentre la trasmissione aerea rimane può avvenire soltanto in circostanze particolari, come spazi chiusi, affollati e, soprattutto, non adeguatamente ventilati.

Inoltre, anche a luglio 239 scienziati avevano sollecitato l’Oms ad aggiornare le proprie linee guida evidenziando l’esistenza di prove sufficienti a sostengo del potenziale significativo di diffusione aerea del coronavirus, e il 16 ottobre alcuni di loro hanno pubblicato un’ulteriore lettera su Science invitando alla necessità di “armonizzare” le discussioni sulle modalità di trasmissione del virus per garantire strategie di controllo più efficaci e fornire guide chiare e coerenti alle persone.

Anche su The Lancet il 29 ottobre è stato pubblicato un articolo che tratta proprio la questione, evidenziando come sia noto che il rischio di infezione è minore all’esterno o in luoghi ben ventilati e invitando a una maggiore comprensione delle rotte di trasmissioni per prevenire nuovi contagi. Lo stesso Ministero della salute riporta che in determinati casi “non è possibile escludere la trasmissione per aerosol”, ma che “sono necessari ulteriori studi per indagare su tali episodi e valutarne l’importanza per la trasmissione del virus”.

Quanto resiste sulle superfici?

Nonostante il contagio indiretto sia un’eventualità più limitata, dall’inizio dell’epidemia una delle preoccupazioni maggiori ha riguardato – e riguarda – proprio l’effettiva sopravvivenza del virus sulle superfici esterne e la sua carica infettiva. Come abbiamo detto, quando una persona parla, tossisce o starnutisce emette dei droplets, piccole goccioline che viaggiano nell’aria per brevi distanze e possono depositarsi su oggetti o superfici che, di conseguenza, possono diventare veicoli di diffusione del virus.

All’inizio della pandemia sono state avanzate diverse ipotesi, e il 17 marzo è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine un interessante studio, che ha individuato le superfici più “a rischio”. Dallo studio, è emerso che il nuovo Coronavirus può sopravvivere fino a tre giorni su alcune di queste. All’argomento, abbiamo dedicato un articolo specifico, in cui il dott. Francia ha commentato lo studio in questione e anche la possibile correlazione tra la diffusione dell’epidemia e l’inquinamento atmosferico.

Attualmente, come si legge anche sul sito del Ministero della Salute, stando alle attuali evidenze scientifiche, sappiamo che il tempo di sopravvivenza del virus varia a seconda della superficie considerata. Il rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità risalente al maggio 2020 ha riportato i tempi di rilevazioni delle particelle sulle superfici più comuni e come procedere a una corretta sanificazioni di superfici e ambienti.

Pazienti asintomatici: cosa dicono gli studi?

Sulla contagiosità degli asintomatici il dibattito è tuttora in corso, e la questione si complica considerando che non c’è una definizione specifica e univoca sugli “asintomatici”. L’Istituto Superiore di Sanità definisce asintomatica “una persona trovata positiva al test per SARS-CoV-2 senza segni o sintomi apparenti di malattia”;  come sappiamo però, dato che il tempo di incubazione è lungo, è possibile che una persona risulti positiva al momento del tampone ma sviluppi in seguito dei sintomi (definita quindi presintomatica).

I dati disponibili riguardo ai sintomi rilevati al momento dei tamponi non distinguono quindi tra asintomatici e presintomatici, e dunque è difficile comprendere effettivamente il loro ruolo nella trasmissione del virus. Inizialmente, l’eventualità che un asintomatico potesse contagiare era considerata “rara” o “molto rara”, mentre negli ultimi mesi sono stati condotti nuovi studi che, secondo gli esperti, evidenzierebbero che la presenza di soggetti non sintomatici (asintomatici e presintomatici) è un fattore rilevante nella diffusione del virus.

Uno dei primi studi sulla questione è stato quello pubblicato su The Lancet, condotto su una famiglia di sei componenti, da cui è emerso che il coronavirus potrebbe anche essere trasmesso da pazienti asintomatici: si tratta di persone infette che non mostrano però alcun sintomo tipico della malattia e che potrebbero contagiare di conseguenza altre persone inconsapevolmente, com’è accaduto nella famiglia soggetta a studio. Infatti, pare che il virus sia passato da un parente malato agli altri componenti, ma soltanto due avevano avuto contatti diretti con il paziente infetto iniziale. Questa prima ipotesi è stata confermata anche da un altro studio pubblicato sul The New England Journal of Medicine: pare che la carica virale persista anche nel paziente asintomatico dopo 7-11 giorni dal contatto con un caso, suggerendo “il potenziale di trasmissione dei pazienti asintomatici o con sintomi minimi”.

Nel corso dei mesi sono state diverse le ricerche che hanno evidenziato come molti dei pazienti positivi al coronavirus siano asintomatici e trasmettano il virus in maniera silente: citiamo, una per tutte la revisione pubblicata lo scorso 3 giugno sugli Annals of Internal Medicine da Daniel Horan ed Eric Topol, che sintetizza le migliori evidenze disponibili sull’argomento. Sono stati analizzati i dati di 16 coorti, tra cui quella italiana di Vo’ (in cui il 43% delle persone positive al coronavirus è risultato asintomatico e contagioso allo stesso modo dei soggetti sintomatici), ed è emerso, ad esempio, che circa il 40-45% delle persone infette risulta senza sintomi (sottolineando però la difficoltà nel distinguere tra asintomatici e presintomatici). Questo suggerisce quindi che gli asintomatici possano contribuire alla catena di trasmissione, e secondo la revisione possono diffondere il virus per parecchio tempo, anche 14 giorni.

Infine uno studio pubblicato sulla rivista Jama Internal Medicine, svolto dai ricercatori della Soonchunhyang University (Corea del Sud), ha analizzato i tamponi raccolti tra il 6 e il 26 marzo scorso da 303 persone positive in isolamento a Cheonan, città della Corea del Sud. Dei positivi, 110 erano inizialmente asintomatici e, durante il periodo di osservazione, 89 sono rimasti asintomatici fino a che il tampone non è tornato negativo (mentre le restanti 21 hanno poi sviluppato i sintomi, rivelandosi quindi presintomatici). Dalle analisi di questi dati, i ricercatori hanno dedotto che anche chi non presentava sintomi aveva la stessa carica virale – nelle vie aeree superiori e inferiori – dei pazienti sintomatici.

Quali sono i soggetti più a rischio?

Dai dati a disposizione, sembrerebbe che le categorie più a rischio di sviluppare una sintomatologia più grave a causa dell’infezione da SARS-CoV-19 siano:

Secondo l’Oms, la maggior parte delle persone (circa l’80%) guarisce dalla malattia senza bisogno di cure ospedaliere, mentre circa il 20% di quelli che contraggono l’infezione si ammala gravemente e necessita di ossigeno, mentre il 5% si ammala a livello “critico”, arrivando a necessitare di cure intensive. L’Oms, però, sottolinea che chiunque può ammalarsi di Covid-19 (come tra l’altro suggeriscono i dati della Sorveglianza Integrata in Italia, in cui si vede chiaramente che l’età media dei contagiati è diminuita) e sviluppare complicanze che possono, in alcuni casi, portare alla morte.

In un nostro articolo, abbiamo approfondito i risultati un importante studio che consentirebbe di individuare i pazienti ad alto rischio di mortalità.

Quanto è pericoloso il virus?

Alla fase attuale e considerando il veloce aumento di casi nel mondo, non è possibile dare una risposta certa. Abbiamo visto come la maggior parte dei positivi al virus sembri non sviluppare sintomi gravi, ma secondo alcuni degli studi sopra citati, l’assenza di sintomi non corrisponde necessariamente a un’assenza di danni, dal momento che l’infezione da Covid-19 colpisce diversi organi. Gli esperti spiegano quindi che saranno necessari ulteriori ricerche per determinare eventuali danni polmonari dopo l’infezione.

Oltre a questo, a preoccupare è sicuramente la velocità di diffusione. Come abbiamo potuto constatare si tratta di un virus piuttosto aggressivo e contagioso.

Riguardo al tasso di mortalità, invece, l’Oms ha affermato che circa lo 0,6% di chi si ammala di Covid-19 muore, ma in generale sulla letalità del virus gli esperti non sono ancora concordi, anche se ammettono che rappresenta un pericolo maggiore per la fascia di popolazione anziana.

Secondo Francia, questo accade perché si tratta, generalmente, di persone con un sistema immunitario già debilitato a causa di patologie croniche pregresse: il virus quindi, in questi casi, va a colpire un organismo già fortemente in difficoltà, causando gravi insufficienze respiratorie.

Perché è importante evitare il contagio?

Come sappiamo, le misure di sicurezza intraprese dai vari Paesi, come la chiusura di scuole e di luoghi pubblici affollati, hanno l’obiettivo di contenere il numero dei contagi. Nel discorso del 28 febbraio, il direttore generale dell’Oms ha sostenuto che “la chiave per contenere questo virus è di rompere le catene di trasmissione” e ha invitato tutti i Paesi a “educare le popolazioni, espandere la sorveglianza, trovare, isolare e prendersi cura di ogni caso, tracciare ogni contatto”.

Per questa ragione è fondamentale attuare efficaci e attività di contact tracing, ossia tempestiva identificazione, gestione e isolamento dei contatti positivi. Questo tracciamento è essenziale per individuare eventuali casi “secondari” e per contenere la curva dei contagi arrivando, appunto, a interrompere del tutto la catena di trasmissione. Il rispetto di tutte le misure di sicurezza, un efficace tracciamento dei contatti (anche grazie ai test rapidi) e l’isolamento sono, quindi, le nostre “armi” migliori contro il virus, soprattutto per proteggere la fascia di popolazione più “debole” ed evitare di sovraccaricare le strutture e i presidi sanitari pubblici.

Un sacrificio duro ma necessario, quindi, che però possiamo affrontare facendo tesoro di alcuni consigli. Come quelli dispensatici dalla dottoressa Bastelli a fine marzo, che in un articolo ci spiega come gestire lo stress da quarantena.

Quante persone guariscono?

Come abbiamo visto, per l’Oms circa l’80% dei pazienti infetti guarisce da solo, senza che sia necessario un ricovero o trattamenti particolari.

In Italia, dall’inizio della pandemia sono molte le persone guarite. Attualmente, i positivi sono 430.277, i guariti 2.076.928 e i decessi 90.241 (dati relativi alla data 5 febbraio 2021 e aggiornati quotidianamente sul portale della Protezione Civile).  Bisogna dire, tuttavia, che questi casi sospetti per Covid-19 sono testati presso i laboratori regionali di riferimento e poi mandati all’Iss che effettua ulteriori test per confermare l’infezione da SARS-CoV-2 e che non ci siano stati falsi-positivi: quelli che risultano nuovamente positivi al secondo test sono “confermati” e inviati alle autorità sanitarie internazionali, come l’ECDC e l’Oms.

Su come funziona esattamente il test del tampone, abbiamo scritto a un articolo ad hoc.

Cosa fare in caso di sintomi? Andare in ospedale: sì o no?

Il Ministero della Salute consiglia, in presenza di sintomi come febbre e tosse secca, di consultare immediatamente il proprio medico curante e di non uscire dalla propria abitazione. Infatti è sconsigliato recarsi al Pronto Soccorso, perché il rischio è quello di aumentare la diffusione e di contagiare involontariamente altre persone. Quindi, se non ci si sente bene, occorre rimanere a casa e, se si sospetta di essere stato contagiato, informare il proprio medico di famiglia, il pediatra o la guardia medica, oppure chiamare il numero verde 1500, attivo 24 ore su 24, istituito dal Ministero della Salute, o i numeri verdi regionali dedicati al coronavirus, ove presenti, che provvederanno a indirizzarti rapidamente alla giusta struttura sanitaria.

Nel caso invece abbiate avuto un contatto stretto con una persona risultata positiva al Covid-19, dovete restare in quarantena per 14 giorni dall’ultima esposizione al caso, oppure per 10 giorni dall’esposizione effettuando un test antigenico o molecolare negativo.

Alla definizione di contatto stretto, sulla differenza tra isolamento e quarantena e sulle precauzioni da adottare riguardo ai contagi intrafamiliari abbiamo dedicato un approfondimento.

Gli antibiotici funzionano?

Gli antibiotici non agiscono sulle malattie virali, ma su quelle di origine batterica, così come ogni farmaco agisce su una determinata patologia”, ci ha spiegato pochi mesi fa il dottor Francia. Per questo, anche secondo l’Oms è sconsigliata l’assunzione di farmaci antivirali e antibiotici – che non devono essere usati come mezzo di prevenzione o trattamento al coronavirus – a meno che non sia prescritto dal proprio medico per il trattamento di un’infezione batterica. Anche il Ministero della Salute, nel rispondere alle notizie false che girano sul virus, conferma che “gli antibiotici non hanno effetto sui virus e quindi neanche sul coronavirus”.

Esistono cure? I vaccini

Riguardo il trattamento dell’infezione, gli esperti spiegano come non esista un trattamento specifico generico, perché bisogna basarsi sui sintomi del singolo paziente. Sulle terapie impiegate nei pazienti che hanno contratto il SARS-CoV-2 abbiamo scritto un approfondimento. Tra queste, si è molto discusso di quella che utilizza il plasma autoimmune: per questo abbiamo abbiamo cercato di comprendere, insieme al dott. Francia, come funziona la terapia e se è efficace o meno contro il coronavirus.

Tuttavia, in questi mesi trovare un vaccino contro il coronavirus è diventata una priorità. “Normalmente per fare un vaccino occorrono 5-6 anni” spiega Francia, ma dopo mesi di sperimentazione clinica anche nel nostro Paese, a fine dicembre 2020, è iniziatala campagna di vaccinazione. Di quali siano i vaccini contro il Covid-19 autorizzati finora, come funzionano e quale sia la loro efficacia ne abbiamo parlato sempre col dott. Francia.

Esiste un’immunità dopo la malattia?

A questa domanda non esiste ancora una risposta certa. Come riportato sul Corriere.it in un articolo scritto con la consulenza di Sergio Abrignani, immunologo, ordinario di Patologia generale all’Università Statale di Milano e direttore dell’Istituto nazionale di genetica molecolare “Romeo ed Enrica Invernizzi”, è possibile riammalarsi di Covid-19 e nell’articolo vengono infatti citati alcuni casi di “reinfezione”.

Alcuni studi, come quello condotto, tra aprile e giugno, dall’Istituto europeo di oncologia, insieme allo Spallanzani e ad altri enti di ricerca italiani, pubblicato sul Journal of Clinical Medicine, sembrano anche suggerire che, non solo ci si possa riammalare, ma che il livello di anticorpi prodotti dall’organismo per combattere l’infezione diminuisca in poco tempo. Dopo appena un mese, secondo i ricercatori, mentre secondo la ricerca portata avanti dai King’s College London e pubblicata su Nature Microbiology, si avrebbe un calo sostanziale in 3 mesi.

Ma le immunoglobuline non sono gli unici “strumenti” per contrastare l’infezione. Oltre alla risposta immunitaria data dagli anticorpi, come riporta anche la Fondazione Veronesi, ne esiste un’altra – detta “cellulare”mediata dalle cellule T (linfociti T). Secondo una ricerca condotta dal Public Health England, agenzia governativa inglese, e dall’Uk Coronavirus Immunology Consortium, l’immunità cellulare potrebbe durare fino a 6 mesi, anche negli asintomatici e in chi ha avuto forme lievi. Tuttavia, è bene sottolineare come i risultati siano ancora preliminari e, in generale, si dovranno portare avanti ulteriori studi e approfondimenti.

A questo proposito, consigliamo la lettura del nostro articolo sull’immunità di gregge.

Quali sono le misure di prevenzione?

La domanda principale è, quindi, come possiamo proteggerci? Come abbiamo detto sopra, non essendoci ancora un vaccino o una cura specifica, la prevenzione rimane il modo migliore per evitare l’infezione. A questo proposito, l’Oms ha pubblicato una serie di raccomandazioni per ridurre il rischio di infezione e di trasmissione, proteggendo sia se stessi sia gli altri. Sul sito del Ministero della Salute sono state pubblicate le misure da adottare per prevenire il contagio.

  • Occorre avere sempre con sé dispositivi di protezione delle vie respiratorie e indossarli obbligatoriamente nei luoghi al chiuso e in tutti i luoghi all’aperto quando “non possa essere garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi”. Inoltre, è fortemente raccomandato l’uso delle mascherine anche all’interno delle abitazioni private se si è in presenza di persone non conviventi. Riguardo all’esonero delle mascherine, possono non indossarle i soggetti che stanno svolgendo attività sportiva, i bambini di età inferiore ai sei anni e i soggetti con patologie o disabilità incompatibili con l’uso della mascherina e chi interagisce con loro.
  • Mantenere una distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro.
  • Lavarsi frequentemente le mani usando un detergente a base alcolica o con acqua e sapone per almeno 20 secondi per eliminare eventuali presenze di virus.
  • Evitare i luoghi affollati, gli ambienti chiusi con scarsa ventilazione e la distanza ravvicinata.
  • È bene garantire una buona ventilazione di ambienti chiusi, inclusi abitazioni e uffici.
  • Evitare abbracci e strette di mano.
  • Starnutire o tossire in un fazzoletto o con il gomito flesso, evitando il contatto delle mani con le secrezioni respiratorie; gettare i fazzoletti utilizzati in un cestino chiuso immediatamente dopo l’uso e lavarsi le mani.
  • Non scambiarsi bottiglie e bicchieri, in particolare durante l’attività sportiva.
  • Evitare di toccare gli occhi, il naso o la bocca con mani non lavate.
  • Non assumere farmaci antivirali e antibiotici, se non prescritti dal medico.
  • Pulire le superfici con acqua e sapone o comuni detergenti neutri per rimuovere lo sporco e poi disinfettarle con soluzioni a base di ipoclorito di sodio (candeggina/varechina) o alcol adeguatamente diluite.

Secondo il dottor Francia, “è importante seguire le norme che sono state diffuse e lavare spesso le mani, in modo da evitare rischi”. Per questa ragione, abbiamo pubblicato un articolo ad hoc in cui si spiega come lavare le mani correttamente, seguendo le indicazioni del Ministero della Salute.

In caso di manifestazioni di sintomi, come abbiamo detto la raccomandazione è di rimanere a casa: evitare i contatti con le altre persone e le visite alle strutture mediche consentirà a queste stesse strutture di operare nella maniera più efficace possibile e aiuterà a proteggere sé stessi e gli altri.

Mascherine: come funzionano?

Nella fase iniziale della pandemia, le maggiori istituzioni sanitarie avevano sconsigliato l’utilizzo delle mascherine per coprire la zona del naso e della bocca in assenza di sintomi respiratori. Questo soprattutto per evitare uno spreco di risorse preziose per gli operatori sanitari e le persone che devono prendersi cura di qualcuno (sia a casa sia in una struttura sanitaria). Ma con la rapida diffusione del virus in tutto il mondo e un ingente sforzo per produrre nuove scorte di dispositivi di protezione individuale, si è reso invece indispensabile – e obbligatorio – il loro utilizzo.

La mascherina che si trova in commercio con più facilità è quella medico-chirurgica: agganciabile alle orecchie con una banda elastica, è composta da strati di tessuto-non-tessuto che vanno a formare una barriera impenetrabile alle goccioline (ma permeabile all’aria). Come riporta un articolo del The New Scientist, infatti, questa tipologia di mascherina riporta però delle criticità:

  • non aderisce perfettamente al volto, lasciando quindi scoperte delle fessure laterali e la zona degli occhi, mucosa con cui il coronavirus potrebbe entrare in contatto;
  • è poco efficace contro le sospensioni fini sotto forma di aerosol e pulviscolo, su cui viaggia il virus;
  • è un accorgimento pensato più per proteggere le altre persone piuttosto che chi la sta indossando.

Secondo l’Oms, infatti, il potere filtrante delle chirurgiche è del 95% verso l’esterno (impedendo quindi al paziente infetto di contagiare l’ambiente in cui si trova e le persone a lui vicine) mentre solo del 20% verso chi le indossa.

Ad ogni modo, nonostante alcune criticità, questa tipologia di mascherina è quella consigliata delle autorità sanitarie quando si esce perché sono molto leggere e permettono di respirare facilmente; inoltre, risultano essere un efficace dispositivo di protezione verso gli altri, ma appunto tutti devono indossarla correttamente affinché sia garantita la protezione. Infatti, un problema sta nel loro scorretto utilizzo da parte della popolazione in generale al di fuori degli ambienti sanitari: in primo luogo, sono monouso e quindi andrebbero gettate una volta rimosse e mai riutilizzate; in secondo luogo, spesso le persone le rimuovono momentaneamente a causa di fastidi o pruriti, e vanno a toccarsi naso e bocca portando contaminanti e rendendo del tutto inefficace il loro uso. L’Oms specifica anche che andrebbero utilizzate 7-8 ore al massimo e poi gettate e che il loro uso è efficace soltanto se in combinazione con una frequente pulizia delle mani, attraverso un corretto strofinamento a base alcolica o con sapone e acqua.

Poi esistono altre tipologie di mascherine che, a differenza delle chirurgiche, sono protettive per sé e per gli altri e possono essere riutilizzate (anche se con dei limiti), come ad esempio le Ffp2. Sono considerati veri e propri strumenti di protezione e filtrano sia in entrata che in uscita, permettendo quindi anche di auto proteggersi; sono consigliate soprattutto a chi si trova in situazioni “a rischio”. Tuttavia, anche se molto efficaci, risultano più costose rispetto alle chirurgiche e più pesanti da indossare, rendendo la respirazione difficoltosa. Gli esperti, quindi, sottolineano che se tutti indossassero correttamente le chirurgiche non ci sarebbe bisogno di utilizzare le Ffp2.

Ad ogni modo, in questo articolo abbiamo approfondito l’argomento, andando a vedere le varie tipologie di mascherine e di dispositivi di protezione individuale e come usarli correttamente.

Bere acqua dal rubinetto è pericoloso?

La situazione di emergenza ha fatto nascere nuovi timori e paure, anche riguardo a piccoli gesti quotidiani, come bere acqua dal rubinetto. In molti, nei mesi scorsi, si sono chiesti se sia considerato un veicolo di trasmissione del virus, ma il dott. Francia rassicura: “no, le pratiche di depurazione uccidono le particelle virali, e quindi bere acqua dal rubinetto non è assolutamente pericoloso”. In conclusione, a meno di esigenze sanitarie di altra natura, non è necessario bere acque imbottigliate o altre bevande.

Come spiegare il coronavirus ai bambini?

È fondamentale che anche i più piccoli siano informati in maniera adeguata, con parole giuste e un linguaggio adatto all’età, per aiutarli a far fronte a questa situazione di stravolgimento delle proprie abitudini e di lontananza dalla scuola e dagli amici. Per supportare i genitori in questo delicato compito, sono diversi i consigli e gli strumenti promossi dal Ministero del Governo, dall’Unicef e dagli psicologi, come alcuni video istruttivi, che permettono di tranquillizzarli acquisendo una maggiore consapevolezza su quanto sta accadendo.

Su quest’argomento, vi consigliamo la lettura di questo articolo, in cui abbiamo riassunto i punti principali per aiutare i genitori a gestire la situazione nel modo giusto e vedendo insieme alcuni suggerimenti utili.

Condizionatori: sono un fattore di rischio?

Si è molto discusso della possibilità di usare impianti di raffrescamento e di climatizzazione dell’aria in estate e quelli di riscaldamento (tramite emissione di aria calda) in inverno, perché si teme che questi potrebbero costituire un fattore di rischio, veicolando quindi la diffusione del virus in ambienti indoor. A questo proposito, il dott. Francia conferma questa eventualità, soprattutto nel caso in cui si utilizzi un programma di ricircolo dell’aria. “Tuttavia, esistono dei filtri in grado di ‘trattenere’ le particelle virali: il consiglio è, dunque, di farsi valutare l’attività di filtrazione degli scambiatori di aria da un tecnico per verificare l’effettivo livello di filtraggio”. Accorgimento consigliato dalla stessa Società italiana di medicina ambientale (Sima), che ha fornito alcuni consigli utili sull’utilizzo sicuro degli degli impianti di condizionamento e climatizzazione degli spazi pubblici. In particolare, si raccomanda di pulire con acqua e sapone i filtri degli impianti di riscaldamento, di sanificare i motori esterni e di mantenere dei tassi di umidità relativa tra il 50 e il 70%.

In generale, come abbiamo visto, è fortemente raccomandato di areare spesso i luoghi chiusi.

Le zanzare potrebbero trasmettere il virus?

Durante l’estate e con l’arrivo del caldo è emerso un ulteriore timore legato alla comparsa delle zanzare che, oltre ai fastidi legati alle punture, sono portatrici anche di una serie di batteri o parassiti che possono determinare alcune patologie, più o meno gravi. In molti, quindi, si sono chiesti se la loro presenza potesse considerarsi un ulteriore veicolo di trasmissione del nuovo Coronavirus. Il dott. Francia aveva spiegato che era difficile prevederlo: “bisogna vedere come evolverà la situazione. Ad esempio, quando scoprimmo il virus dell’Hiv, si temeva che molte persone si ammalassero di Aids per via delle zanzare, che, andando a ‘pungere’ una persona infetta e una persona sana, potevano trasmettere il virus. In realtà, questo non è accaduto, quindi ritengo che questo virus possa difficilmente essere trasmesso dalle zanzare”. Infatti, come lo stesso Istituto Superiore di Sanità riporta, il nuovo Coronavirus è un virus respiratorio che si trasmette da uomo a uomo attraverso le minuscole goccioline (droplets) emesse con starnuti o colpi di tosse. “Ad oggi, non c’è alcuna evidenza scientifica di una trasmissione attraverso artropodi vettori, quali zecche, zanzare o altri insetti che succhiano il sangue, che invece possono veicolare altri tipi di virus (detti arbovirus), responsabili di malattie completamente diverse dalla COVID-19, come ad esempio la dengue e la febbre gialla”.

Coronavirus e lacrime: si può parlare di congiuntivite da Covid-19?

Si è molto discusso anche riguardo al fatto che le lacrime possano consistere o meno in un fattore di trasmissione del virus. Questo perché molti pazienti positivi al Covid-19 hanno manifestato una congiuntivite – come abbiamo visto nel nostro articolo sul rapporto tra coronavirus e allergia e le differenze tra i sintomi – e nelle loro lacrime è stato infatti riscontrato il virus. La domanda è, quindi: il coronavirus si può trasmettere anche attraverso le lacrime? Il dott. Francia spiega che “la congiuntivite è uno dei segnali quasi costanti del coronavirus. Inizialmente, si pensava che gli occhi fossero semplicemente una via d’ingresso del virus: ad esempio, andando a toccare una superficie contaminata e successivamente un occhio. Tuttavia, il fatto di averlo trovato anche nelle lacrime fa supporre che il virus possa anche ‘uscire’ da questi organi”. Sicuramente, rispetto alla modalità di contagio diretta – quindi, via droplets – la trasmissione attraverso gli occhi o le secrezioni oculari è meno pericolosa, ma, continua il medico, “le lacrime sono sotto stretta osservazione, in quanto possono rappresentare un elemento di pericolo”. Sono fondamentali, quindi, le precauzioni igieniche, come il lavarsi spesso le mani ed evitare il più possibile di portarsi le mani al viso.

Coronavirus, come comportarsi? I consigli degli esperti

Come abbiamo visto in questi mesi, la diffusione del nuovo coronavirus è lontana dall’essere risolta, e i casi sono aumentati in maniera esponenziale e in più Paesi del mondo. Tuttavia, si raccomanda di prestare attenzione, ma mantenendo la calma: è opportuno seguire soltanto le indicazioni riportate dagli organi ufficiali, come l’Oms e il Ministero della Salute, che ha messo a disposizione un portale dedicato e un numero utile da contattare in caso di dubbi o domande.

In conclusione, il modo migliore per proteggersi è seguire scrupolosamente le indicazioni riportate sopra. Infatti, per un’efficace prevenzione gli esperti consigliano di indossare la mascherina quando si è con altre persone, di mantenere la distanza minima di un metro e di rispettare le norme igieniche-sanitarie, come lavarsi spesso le mani ed evitare di toccare la zona occhi-naso-bocca, gesti semplici ma fondamentali per combattere il contagio.

 

Articolo scritto da Alessia Rossi con il contributo del dott. Francia, epidemiologo, direttore sanitario del Centro Diagnostico Chirurgico Dyadea e membro del Comitato Scientifico di UniSalute. 

 

Altre fonti:

epicentro.iss.it
ecdc.europa.eu
who.int
salute.gov.it

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    1 commento

  1. Buongiorno a tutti… Se adesso il contaggio del coronavirus è alto, immaginiamoci i rischi di contaggio quando nella prossima stagione saremo come sempre invasi dalle zanzare. Vero?